UN CORSO DI FORMAZIONE PUÒ GUIDARE A PERCORSI PERSONALI DI CONSAPEVOLEZZA E ACCENDERE COLLEGAMENTI INASPETTATI (BLUE EYES/BROWN EYES) SUPPORTATI DA STRUMENTI VISUALI.
Qualche giorno fa riguardavo gli appunti presi durante un corso dedicato al Trauma culturale e in particolare al “fardello” ereditato dall’appartenenza ad una cultura in cui nasciamo, che respiriamo e che è parte di noi, un contesto fatto di esperienze e comportamenti comuni, pattern comuni.
Non vediamo i nostri “fardelli culturali”, così come non vediamo il nostro naso eppure non dubitiamo della sua presenza. Ce ne rendiamo conto quando ci sbattiamo contro, oppure quando entriamo in empatia con qualcuno che non sta nella nostra stessa “buca”.
In order to EMPATHIZE with someone’s experience, you must be willing to BELIEVE them as they SEE it, and NOT how you IMAGINE their experience to BE
– Brene Brown
Questa complessità di comportamento, cultura e percezione del sé trova nel corso di Deran Young una rappresentazione grafica nell’ICEBERG, metafora che racconta l’importanza del pensiero sistemico nell’approccio alla persona come sistema, con parti da accogliere, respirare, condividere, connettere:
Having white privilege does not mean that your life has not been hard.
It means the color of your skin has not been the REASON of your hardship.
– Deran Young
(Healing Cultural Trauma with Internal Family Systems)
Ascoltando questa frase mi sono ricordata di un esperimento, condotto nel 1968 da un’insegnante sui suoi alunni, in una scuola elementare dell’Iowa, negli Stati Uniti.
In occasione dell’assassinio di Martin Luther King (4 aprile 1968), Jane Elliott decise di affrontare il tema della discriminazione razziale con i suoi alunni. L’insegnante si rese ben conto che i suoi alunni, tutti bianchi e abituati a vivere in una piccola cittadina, faticavano a comprendere il tema del razzismo, non lo vivevano e non lo sentivano proprio. Decise quindi di provare a far sperimentare il razzismo ai suoi alunni, dividendoli in due gruppi e privilegiandone sfacciatamente uno, anche supportando il suo comportamento con finte giustificazioni “scientifiche”. Fece sì che ogni gruppo sperimentasse il pregiudizio, l’emarginazione e la sfiducia sulla propria pelle, restituendo alla fine dell’esperimento i pensieri e le sensazioni provate.
Per i dettagli dell’esperimento, ti consiglio l’articolo pubblicato nella bella testata online THE VISION: “Un esperimento del ’68 mostrò che le nostre prestazioni dipendono da cosa gli altri pensano su di noi” di Giulia Di Bella –> https://thevision.com/attualita/influenza-giudizio-altrui/
L’articolo illustra anche quanto l’esperimento sia stato, nell’immediato, oggetto di aspre critiche per le modalità con cui era stato condotto, e, nel tempo, oggetto di grandi apprezzamenti per quanto ha messo in evidenza:
“I risultati dell’esperimento di Elliott servono ancora oggi per comprendere la pericolosità dei comportamenti discriminatori e di qualsiasi forma di emarginazione o ghettizzazione sociale – basate su pregiudizi o stereotipi – che procurano ferite profonde agli individui che ne sono vittime e sortiscono effetti devastanti sulla loro autostima. Blue eyes/brown eyes ha dimostrato che le nostre prestazioni, la nostra capacità di credere in noi stessi e di risolvere problemi dipende solo in minima parte delle nostre abilità o da un particolare talento su cui non abbiamo influenza diretta; al contrario, la buona riuscita delle nostre attività dipende in larga misura dal fatto che gli altri credano o meno in noi e nel nostro potenziale, e da quanto chi ci circonda ci sproni a far meglio o al contrario ci demoralizzi.”
Se preferisci esplorare l’argomento con un filmato, su YouTube è disponibile il documentario realizzato nel 1985, che racconta l’esperimento e le esperienze dirette degli alunni ormai adulti, intervistati dopo quasi 20 anni.
A CLASS DIVIDED (1985)
Esplorare le relazioni e le connessioni che fanno di noi le persone che siamo è un percorso ricco di significato e di benevolenza, che ne dici?
Anche solo riempire un grafico dell’iceberg è un percorso profondo, di riflessione personale e di accoglienza su quanto è parte di noi, riconoscendo le risorse e i limiti che abbiamo. Le mappe sono uno strumento gentile, non giudicano, ti fanno vedere dove sei e quanto complesso è il mondo da cui vieni e in cui ti muovi e respiri ogni giorno.
Se vuoi saperne di più, contattami! 🙂