Un approccio complesso verso il razzismo che è in noi
Esiste un approccio efficace per contrastare il pregiudizio e il razzismo? Anche e soprattutto quando è inconsapevole? Un essay di Richard Schwartz, fondatore dell’ IFS – Internal Family System, offre un punto di vista che penso sia interessante.
L’ Internal Family System prevede la presenza in ciascuna persona di più parti, tutte benvenute, come tante personalità che si sono formate lungo la singola esistenza e che emergono nelle diverse situazioni. Quando siamo in uno stato regolato, le parti sono presenti in diversa composizione e si danno il cambio in modo fluido, sono integrate e calate nel contesto; come dei bravi attori sul palcoscenico, esse prendono la parola, e restano presenti senza monopolizzare la scena e senza fare le protagoniste assolute. In un contesto così integrato, emerge il SÉ, uno stato regolato che abbraccia e gestisce le parti e che può anche liberarle da ruoli rigidi e datati, derivati ad esempio da vere e proprie “zavorre culturali” ereditate e agite spesso inconsapevolmente.
Mi piace molto questo approccio, ne apprezzo l’apertura alla complessità, all’ascolto, alla sospensione del giudizio, e apprezzo anche l’importanza che assegna ad una consapevolezza incarnata, sentita, frutto di integrazione tra corpo e mente, e non di una lotta di predominio. Solo accogliendo tutte le parti che ci compongono, e quindi le esperienze che le hanno generate, possiamo volerci bene e vivere bene con noi stessi, uno stato che la IFS chiama self leadership.
L’Internal Family System nasce come pratica clinica e l’ho incontrata nel mio percorso di certificazione, come strumento per l’esplorazione, la curiosità, l’accoglienza e l’ascolto delle “parti”, quelle voci a volte in disaccordo che sentiamo nella nostra testa quando viviamo ad esempio un conflitto interiore per una scelta. The Parts’ Work, traducibile in forma libera come “Il Gioco delle Parti”, è un esercizio che stupisce per le intuizioni che va a generare.
L’essay Working with Internalized Racism di Richard Swartz tratta il tema del razzismo interiorizzato. Quello, per capirsi, che rifiutiamo di riconoscere in noi e che tuttavia è parte di noi, un fardello ereditato dalla cultura in cui nasciamo, respiriamo, cresciamo: un razzismo che possiamo razionalmente soffocare e combattere, pensando anche ingenuamente di cancellarlo.
Parlare di razzismo è difficile perché è un argomento complesso. Parto da una mia esperienza personale per poi allargare il discorso.
Non posso dire di averlo conosciuto sulla mia pelle. Mi è capitato di essere vittima di qualche ingenuo e ignorante pregiudizio, come è capitato a tutti, credo. Son passati quasi trent’anni e mi ricordo ancora un episodio. Frequentavo un corso di formazione teatrale, e un giorno si parlò di alberi di gelso. Mi chiesero se in Friuli (mia terra natia) esistessero e se riuscissero a fare le more (sic). Le mie rassicurazioni non convinsero del tutto i presenti e il discorso finì con qualche commento del tipo “magari fanno le more ma non sono buone e dolci”… si sa, con il clima del profondo Nord! Mi ricordo ancora adesso quanto quelle domande ingenue mi avessero dato fastidio: ai miei occhi, squalificavano la mia terra natale come fredda, arida e priva di piaceri. Io da quella terra mi ero allontanata già da anni e non avevo particolari motivi per difenderla.
Eppure…
Percepii critica e giudizio verso qualcosa di radicato in me a livello viscerale: l’albero di gelso è considerato un simbolo in Friuli e molti miei ricordi sono legati ad esso. Anche se razionalmente non condividevo molti aspetti del territorio da cui venivo, i valori di base con cui ero cresciuta erano tutti ancora in me, con i loro diktat su che cosa è giusto o sbagliato, socialmente accettabile o meno, desiderabile o no.
Mi sentii come se il mettere in discussione la qualità del mio mondo di origine fosse un modo per sminuire anche ME come persona, donna, studentessa, tutto.
Da anni mi ero allontanata dalla mia terra natale, bastò un commento ingenuo (e ignorante) per riaccendere il mio senso di appartenenza? In un certo senso non regolato, sì.
Questa stessa parte che si riconosce nella cultura e dei valori d’origine ha ben chiara anche la distanza da chi è “foresto”, estraneo al gruppo, diverso, strano, forse pericoloso. Pretendere di cancellare questa parte, combatterla razionalmente, non fa che rinforzarla. Accoglierla, comprenderne le buone intenzioni di base e separarle dai comportamenti, fa sì che io possa agire sulle mie azioni senza rinnegare da dove vengo. Perché io non sono un’emanazione diretta delle mie radici, sono qualcosa di molto più complesso con tante altre parti che sono entrate a sistema, e nessuna di esse mi definisce in assoluto.
Questo tipo di pensiero penso sia strettamente collegato ai motivi per cui l’antirazzismo aggressivo e giudicante non porta a nessun risultato significativo nel tempo, a nessun cambiamento, anzi, attiva sistemi adattivi di difesa e chiusura. Richard Schwartz evidenzia quanto sia difficile per una persona accogliere la propria parte razzista e i pensieri che alimenta:
Testi tratti dall’essay “Richard Schwartz, Working with Internalized Racism – traduzione di Google e mia
Molti bianchi politicamente progressisti credono che se riconoscono i loro pensieri razzisti, allora non sono migliori di un membro del Ku Klux Klan. Questa idea segue logicamente dal paradigma dominante che abbiamo una sola mente, che può o essere o non essere inquinata dal razzismo. Quando invece credi, come me, che abbiamo molte sotto-menti – quelle che chiamo parti – allora non è una vergogna ammettere che una parte di me – non tutto me – si porta dietro del razzismo interiorizzato, e posso lavorare per liberarla da quel peso usando la curiosità piuttosto che il disprezzo. Questo discorso non vuole minimizzare gli effetti dannosi di tali parti o la responsabilità che abbiamo di affrontarle; tuttavia, fornisce una mappa chiara e un processo per lavorarci sopra.
Accettare di avere una parte razzista va contro il principale bisogno di “sentirsi una brava persona”. Non è banale ammettere di avere pensieri e convinzioni che razionalmente rifiutiamo e che possono mettere a rischio i nostri affetti, le nostra vita sociale e di relazione. Giudicarsi e sopprimere queste parti di noi nasconde il nostro razzismo interno agli occhi del mondo, non lo cancella.
Mentre lavoravo con le parti razziste dei bianchi, inclusa la mia, ho visto con quanta facilità possono interiorizzare convinzioni estreme da alcune fonti comuni: famiglia, coetanei, cultura, esperienze percepite come negative o mancanza di relazione con persone di un’altra etnia, o la necessità di adattarsi, di identificare un capro espiatorio esterno o di giustificare un privilegio. Quando la fonte di pensieri bigotti è l’ignoranza o la relazione sociale, allora sfidarli e ignorarli ha senso e fornire informazioni ed esperienze che li contrastano è molto utile. Ma, come molti altri interventi basati sulla cognizione, l’istruzione da sola potrebbe non toccare le parti emotivamente cariche che sono incorporate nei nostri sistemi limbici. Desmond Tutu (1931-2021, arcivescovo anglicano e attivista sudafricano, Premio Nobel per la Pace 1984 – nota mia) racconta la storia di un giorno in cui, salendo su un aereo, fu orgoglioso di vedere che c’erano due piloti neri. Nel momento in cui si verificarono problemi tecnici durante il volo, tuttavia, si sorprese a preoccuparsi che non ci fosse nessun pilota bianco. È in tutti noi!
Se la nostra parte razzista si sente in colpa e sta sulla difensiva, non vale la pena di giudicarla e aumentare la rigidità del sistema, anzi. Possiamo esplorarla con curiosità per riconoscere e portare in superficie episodi, discorsi e racconti che le hanno dato forma e senso, eventualmente registrando se sia stata generata da un contesto datato e da quali paure sia alimentata.
Riconoscere le proprie paure è un grande atto di coraggio, serve molto potere per essere vulnerabili. Lavorare sulle paure e sulla negatività, con gentilezza e molta autocompassione, è un percorso di crescita e consapevolezza incarnata, che penso ogni adulto debba fare, non per esercitare un fantomatico controllo su di sé, ma per aprirsi ad una realtà complessa con gli strumenti più adatti.
There is a lot that needs to be done in society – work against war, social injustice, and so on. But first we have to come back to our own territory and make sure that peace and harmony reign there.
Thich Nhat Hanh