crepa nel muro toscana novembre 2022

Una cicatrice, un giorno

Crepe, riparazioni e cicatrici d’oro

Un amico mi scrive, in risposta alla mia ultima newsletter, e mi suggerisce di dare un occhio ad un sito. Questo amico (ciao, Galileo!) è una fonte di suggerimenti e suggestioni preziose, quindi seguo il link https://unaparolaalgiorno.it/ e mi iscrivo a questa bella iniziativa dedicata a informazioni e curiosità sulle parole della lingua italiana: una al giorno, arriva fresca fresca di prima mattina nella posta elettronica.

E un giorno arriva: CICATRICE. Una parola aspra, curiosa.

ci-ca-trì-ce

SIGNIFICATO – Segno sulla pelle che si forma in seguito alla rimarginazione di una ferita; tessuto fibroso che sostituisce i tessuti normali lesi da traumi o da processi morbosi; traccia lasciata nell’animo da un’esperienza dolorosa.

ETIMOLOGIA – dal latino cicatrix, di etimo sconosciuto.

Non ha confronti: è una parola che emerge in latino, completamente isolata. Non ci sono echi simili a cicatrix in altre lingue, né vicine né lontane, e non c’è persona che l’abbia studiata che sia stata in grado di dire da dove il latino l’abbia pescata.

dal sito: Una parola al giorno

Una parola misteriosa, di etimo sconosciuto, che parla di rovina, di rottura e di sofferenza. La cicatrice riunisce i pezzi e rimane lì a mostrare il danno subito. Sia che venga celebrata e ostentata, sia che venga mascherata e nascosta, sta come qualcosa che nega la perfezione e l’integrità: quando qualcosa di prezioso si rompe, non è più e non sarà più quello che era. Anche se aggiustato in maniera professionale, anche se sembra perfetto come era, integro, Tu sai che si è rotto, che si è distrutto.

Si cerca di ridurre il danno, di sistemare la rottura in modo che non si veda, si rammenda e si incolla per non vedere la bruttura. Guardiamo con fastidio qualcosa che volevamo integro e invece ha un brutto segno addosso.
Cuore a pezzi, sogni infranti, promesse infrante, uscirne a pezzi… e poi hai voglia a mettere insieme i pezzi. L’immaginario intorno alla cicatrice non è rincuorante. Eppure, mi sembra significativo che le cicatrici non siano possibili su ciò che è morto, si formano solo sul tessuto vivo: parlano di vita e di recupero.

Cercando una lettura né catastrofica né celebrativa del segno cicatrice, mi imbatto nel Kintsugi, la tecnica di riparazione con l’oro della tradizione giapponese. E scopro un mondo che, nascendo dalla maestria artigianale della laccatura, spazia dalla poesia alla musica, dall’arte alla psicologia alla cura spirituale, alla sostenibilità.

Tra le pubblicazioni, trovo un libro che mi colpisce per la copertina.

Vedo un rivolo di luce, una vena, una ferita, qualcosa che mi attrae.

Ho giudicato il libro dalla copertina e mi è andata bene, perché è un gran bel viaggio, fatto di informazioni storiche e tecniche, esperienze personali di artigiani e artisti, e di fotografie splendide.

Bonnie Kemske
Kintsugi – The poetic mend
Herbert Press, 2021

Il Kintsugi, nella tradizione, è una riparazione fatta con materiali preziosi, riservata agli utensili di ceramica utilizzati nella cerimonia del tè.

Importata nel Giappone del XVII secolo dalla vicina Cina attraverso i monaci buddisti, con l’ascesa al potere dei Samurai la cerimonia del tè assunse valore politico ed economico, e con essa tutti gli utensili coinvolti, che venivano scambiati e regalati come simboli di potere, lealtà e alleanza. Fondamentale, quindi, che venissero aggiustati se rotti, e poi riconosciuti e usati nuovamente.

Una cicatrice, un giorno

La riparazione prevedeva l’utilizzo della resina dell’urushi, o Albero della lacca (Toxicodendron vernicifluum), così rara e costosa da costituire essa stessa una moneta di scambio. La resina, dopo settimane di essicazione, veniva poi coperta con polvere d’oro, ripristinando la funzione dell’oggetto e determinandone una nuova vita. Il valore è un concetto pervasivo: valore simbolico del contesto d’uso, valore funzionale e valore dei materiali (oro, lacca) usati per la cura, la ricostruzione e anche la sostituzione dei pezzi mancanti. Alcune varianti della tecnica prevedono infatti che i pezzi mancanti, andati persi nella distruzione, vengano sostituiti con materiali diversi presi da altri oggetti, dando origine ad una evidente rottura della continuità della forma, dei colori e dell’esperienza tattile, e con risultati emozionanti e sorprendenti.

L’esperienza visiva più frequente è la lavorazione sulla crepa. La crepa è un elemento ben presente nel vocabolario visuale giapponese, integrato con l’estetica wabi: l’accoglienza dell’irregolare, dell’imperfetto e dell’incompleto come profonda bellezza.
La ceramica si spacca perdendo piccoli frammenti e la ricomposizione dei pezzi non è esente da crepe e irregolarità. Come la Terra, la ceramica si spacca in base alla sua struttura interna: il Kintsugi mette in evidenza i punti di stress dell’oggetto, che sono parte dell’oggetto stesso fin dalla sua cottura iniziale, fin da quando esiste.

Ring the bells that still can ring
Forget your perfect offering
There is a crack, a crack in everything
That’s how the light gets in

(Leonard Cohen – Anthem)

Il Kintsugi è un lavoro lento e costoso che salda il passato al presente. Il tempo ne è una variabile importante.
La decisione di riparare non è scontata, in alcuni casi la riparazione non è la risposta adatta e non esiste una “cura” standard: ogni pezzo ha la sua cura specifica, unica. L’unicità è così profondamente radicata che c’è chi, artigiano o artista maki-e, aspetta il suo proprio Kintsugi tutta la vita.

Una cicatrice, un giorno

L’oggetto aggiustato non è migliore o peggiore, è una nuova entità, con la traccia della memoria ben visibile. Una testimonianza, non una celebrazione, di un evento che ha distrutto quello che era e di un’azione consapevole che ha dato durata a qualcosa di nuovo: qualcosa che sarebbe inesistente se non ci fosse stato un “prima”, qualcosa che è percettibilmente diverso nella continuità della forma e della funzione.


Testi tratti dal libro Bonnie Kemske, Kintsugi – The poetic mend, Herbert Press, 2021 (mia traduzione libera)

Gli studenti (della Scuola del Tè di Akanuma Taka a Urasenke) si erano riuniti per vedere una mostra di oggetti da tè. Uno studente notò una tazza da tè con una bellissima riparazione Kintsugi. Ben presto tutti gli studenti furono rannicchiati attorno alla vetrina, facendo “Ohhh” e “Ahhh” per la finezza della riparazione d’oro. Il maestro Akanuma si avvicinò e li guardò tutti con disapprovazione. “Non guardate il Kintsugi. Guardate la tazza che è attraverso il Kintsugi.”

In Giappone non tutto veniva riparato con la lacca e l’oro, per gli oggetti quotidiani si usava il vetro, il latte, colle derivate dagli anacardi… gli oggetti venivano aggiustati e reintegrati nell’uso quotidiano. È un riconoscimento di dignità e valore nei confronti degli oggetti aggiustati, un approccio ancora attuale e unico anche nel panorama d’Oriente, una cultura del riuso che ha contribuito alla diffusione del Kintsugi, iniziata a partire dagli anni 2000 e articolata in modo vario, dalle produzioni industriali, ai kit per il fai-da-te, ai corsi per imparare la tecnica e viverne la metafora:


Testi tratti dal libro Bonnie Kemske, Kintsugi – The poetic mend, Herbert Press, 2021 (mia traduzione libera)

Un vaso rotto viene ricostruito e noi vediamo un mondo di significato nella sua riparazione aurea.

Come prima cosa, riconosciamo la tristezza della rottura e il dolore delle nostre stesse tragedie. Accettiamo l’imperfezione del vaso e le imperfezioni in noi stessi. Allora, potremo provare gioia nella bellezza della riparazione, così come potremmo accogliere e portare con orgoglio le nostre cicatrici. E siamo felici perché il vaso ha una nuova vita, così come noi stessi abbiamo un nuovo inizio dopo i duri colpi della vita.

Nel nuovo vaso vediamo un esempio di speranza. Ed è la speranza che ci mostra che possiamo rimettere insieme i nostri vasi, noi stessi e la nostra Terra, come entità imperfette in un mondo imperfetto.

❤️

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