Dei fallimenti e dell’autostima

Quanti fallimenti puoi sopportare?
E, soprattutto, siamo sicuri che siano fallimenti?

Mi è stato insegnato che non esistono fallimenti, solo feedback, o retroazione, e qui scatta la definizione da Treccani:

La retroazione, nota anche come feedback, è il meccanismo mediante il quale i sistemi dinamici sono in grado di rinviare al punto di inizio di un processo ciclico un’informazione sul processo stesso che possa essere utilizzata per migliorarlo o correggerne l’andamento.

C’è da dire che quando ti senti un fallimento, senti poco il feedback e molto la vergogna.

Non so se ti è mai capitato di camminare in solitudine, sentendoti una fallita (come lavoratrice, come moglie, come figlia, a scelta o tutto insieme). A me sì, ricordo che stavo portando a spasso il cane. C’è di buono che il cane ti guarda sempre con gli stessi occhi, non gli importa quanta autostima hai, gli importa il rapporto che avete insieme.

Autostima, è quella che frega. Siamo d’accordo che una bassa autostima sia fonte di conseguenze anche molto negative, ma un’autostima “alta” che cosa significa? Chi decide il livello, lo standard da raggiungere per sentirti bene?

Il problema dell’autostima alta, dice la psicologa statunitense Kristin Neff, non è se ce l’hai, ma da dove viene: se, per avere un’alta autostima, devi sentirti speciale e sopra la media. Essere “nella media” non è abbastanza, può anche sembrare un insulto: un discorso nella media, un lavoratore nella media, una persona nella media… Oh, nella media sarai tu. Io sono oltre.

Ma per sentirsi oltre la media devi avere qualcuno sotto di te (inevitabilmente) e qui scatta la competizione, il confronto, in pratica senti di dover stare meglio degli altri per poter stare bene con te stesso. Detto in altre parole, stai bene con te stesso se senti che qualcuno sta peggio di te. Non granché come approccio da animale prettamente sociale come è l’uomo, vero? Anche considerato quanto la relazione, il coinvolgimento sociale siano veri e propri imperativi biologici per la sicurezza e la sopravvivenza.

Un altra variabile è il contesto: in che ambito vuoi avere un’alta stima di te? Casa, lavoro, sport…? … Tutti? E che succede se non incontri gli standard strepitosi che ti sei prefissato?
E, di nuovo, chi decide il livello, lo standard da raggiungere e superare? Sei tu? Qualcun altro a cui deleghi il metro di giudizio? cultura, famiglia, amici, social, colleghi… la scelta è ampia e non univoca. Perché l’autostima nasce dal confronto: che sia una persona in carne ed ossa o un concetto di perfezione assoluta, il termine di paragone per giudicare quanta autostima abbiamo è “esterno”.

E qui per me entra in gioco l’alternativa della “compassione del sé”, che non significa giudicarsi positivamente ma relazionarsi nel qui e ora in modo gentile con se stessi, imperfettamente umani come siamo, trattarci come trattiamo il nostro migliore amico e non come se, succede spesso, fossimo il nostro peggiore nemico.

Non penso che la compassione di sé (che non è autocommiserazione) sia una scappatoia, anzi. Per esercitarla si passa attraverso la consapevolezza della propria negatività, malessere, sofferenza. Una consapevolezza priva di critica e piena di curiosità e ascolto (e non c’è spazio per l’ascolto nel giudizio), e responsabilità.

Se siamo noi con noi, non c’è il paragone con l’esterno a legittimarci, a limitarci, a definirci.

Si parte da lì, dall’ascolto e dalla consapevolezza delle nostre risposte fisiologiche all’ambiente esterno, interno e relazionale. E poi si va avanti un passo alla volta, e si fanno magie, come un fiore che nasce in mezzo all’argilla, senza acqua, senza un senso particolare. L’ho guardata questa piantina e ho pensato “che cavolo ci fai qui? Ti pare un posto dove crescere, in mezzo al nulla, da sola?” Lei mi ha sorriso. L’ho fotografata.

Il concetto di negative capability che ho introdotto nella storia di febbraio ha ancora molto da dire!

La Negative Capability è la capacità di “essere” nell’incertezza, di farsi avvolgere dal mistero, di rendersi vulnerabili al dubbio, restando impassibili di fronte all’assenza o alla perdita di senso, senza voler a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o a motivi certi.

(Giovan Francesco Lanzara)

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER !

Non invio spam! Leggi la Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Torna in alto