Esserci, essere sola e sentirsi sola
Titolo ingannevole… il famoso film con Barbra Streisand e Ryan O’Neal non c’entra molto. Guadagnassi qualcosa da questo blog, sarebbe un acchiappaclic, o clickbait. Invece è solo uno dei miei tanti collegamenti mentali a casaccio.
Mi è capitato ultimamente di pensare alla solitudine, e in particolare alla differenza enorme che c’è tra “essere” sola e “ sentirsi” sola.
Stare sola mi piace, non ne faccio una bandiera né una scelta di vita… diciamo che per me è qualcosa che mi sono guadagnata nel tempo, una specie di traguardo raggiunto, e ne sono fiera. Una di quelle cose che, quando ci penso, mi sorrido.
Non è stato spontaneo. Ricordo bene la sensazione fisica di paura o anche solo di disagio nell’affrontare luoghi, spazi, eventi… sola. Però, per vari motivi, mi capitava di stare sola spesso e ho fatto, come si dice, di necessità virtù.
C’è voluto tempo, anche perché ho improvvisato parecchio. È stata una di quelle piccole azioni che non cambiano il mondo ma possono cambiare la storia che ti racconti per spiegartelo. Le piccole azioni diventano trasformazioni che insegnano al corpo una sicurezza nuova, se sono abbastanza piccole che non ti mettono in allarme.
Ed è un effetto valanga.
Quando sei a tuo agio e sprizzi serenità da tutti i pori, succede poi che fai poco caso a frasi, occhiate e battute di spirito che, viceversa, aumentano lo sconforto se ascoltate in uno stato fisiologico già attivato da imbarazzo, disagio, vergogna.
Mi viene in mente il corso AIF Formazione Formatori, anni e anni fa, quando una mia compagna di corso si lamentò che l’essere donna e di giovane età la penalizzava perché tutti la trattavano come l’assistente del docente, come una specie di valletta. Lo sfogo era sincero e fu anche ben accolto e condiviso in classe… Invece, il commento del docente fu drastico.
Era in piedi, vicino a lei, e guardandola negli occhi le disse con tono pacato: “sei tu che glielo permetti”.
…
Momento di silenzio, poi baraonda di accuse di incomprensione. E non è vero… E lei non capisce… E bisogna trovarcisi in mezzo per parlarne…
Mi ricordo ancora questo episodio perché mi colpì e continuò a lavorarmi dentro, e ora lo vedo stupendamente collegato a come gestiamo il nostro stato fisiologico, prima ancora che mentale, nelle situazioni più varie.
Non è una questione di controllo, di ribadire adeguatezza e ruolo a suon di elenco titoli e vestiti formali.
È che se tu non ti senti sicura, e in maniera automatica entri in uno stato di difesa/attacco, e non ne esci più perché tutto intorno a te ti parla di giudizio, imbarazzo, perdita di faccia e status, pericolo… ecco, in quello stato lì non puoi, proprio non puoi fisicamente, essere assertiva, sicura, aperta al confronto, centrata.
È il tuo corpo che non te lo permette.
Non importa quanto ti ci metti d’impegno nel provarci “razionalmente”: è proprio la storia che il tuo cervello ti racconta e si racconta per dare un senso ai segnali che arrivano dal corpo… è quella che ti frega, che ti impiccia e non ti molla, anzi tende a rinforzarsi con tutte le conferme che tu generosamente le porti in dono.
La buona notizia è che, se non puoi cambiare i segnali fisiologici, perché semplicemente accadono, puoi cambiare la storia che ti racconti. Cambiare, non cancellare. Si tratta più di un aggiramento che di un attacco frontale.
Un po’ come con il killer interiore, mi viene da dire, quello che per esempio se sei femmina ti dice che non te la puoi cavare da sola, che non ce la fai se non hai chi ti aiuta, che non dico ballare da sola, non puoi neanche camminare senza un uomo al tuo fianco.
Ne ho sentito parlare per la prima volta in un percorso esperienziale di Persona Empowerment… (ho già espresso in altre occasioni il valore e l’importanza che riconosco a quel percorso di formazione) quando Massimo Bruscaglioni ha fatto l’esempio del matrimonio in chiesa. Il padre che accompagna la sposa fino a portarla dal futuro marito. La sposa non fa un passo da sola. La donna non sa camminare da sola, passa dal braccio del padre a quello del marito.
Come distruggere in un secondo tutto un immaginario romantico, un’immagine tenera e familiare.
Anche in questo caso, baraonda! …E non è vero… Che cosa c’entra, è una tradizione… e mio papà… e mio marito… e mia moglie… e io…
A Bruscaglioni piaceva smuovere le acque con provocazioni variopinte, chissà se lo fa ancora… Io almeno in quella singola occasione non mi sentii punta sul vivo: all’altare ci ero arrivata, per puro caso, camminando da sola. E ho rivalutato tutto quello che potevo fare da sola: camminare, fare acquisti, viaggiare, andare al museo, al cinema, mangiare al ristorante… e non solo in viaggio all’estero, dove un’aura da turista rende tutto più facile, anche in luoghi familiari, quando ad essere sola mi sentivo sottosotto una sfigata.
Mangiare al ristorante da sola, ad esempio. Facile all’estero, meno in Italia (tolta Milano), dove mi sentivo diversa, ignorata, con una scritta luminosa sulla testa: “tutta sola” – sottotitolo: “poverina”.
Quando pensi che gli altri ti giudichino diventa tutto più faticoso.
Capire che sì, negli altri esistono pregiudizi, limiti e narrazioni ormai datate, ma che soprattutto ci sono anche in te e che è da lì che puoi partire… questo è l’inizio.
E poi ti trovi finalmente a non trasalire per frasi del tutto naïve
Ma tuo marito ti lascia guidare un’automobile così grande?
E fai tutta quella strada da sola?
E stai da sola in una casa così grande?
Il piccolo si addice alla donna, parafrasando O’Neill… Eugene O’Neill, non Ryan O’Neal, quello era quello di “Ma papà ti manda sola”, conosci il famoso film con Barbra Streisand? (loop)