Rape ed erbette

Cucinare mi attiva la memoria e questo mese mi lascio andare ai ricordi.

Questo mese mi lascio andare ai ricordi e sembrerà strano ma i pensieri migliori mi sono venuti tagliando rape.

Stavo facendo cubetti di rape di Chioggia e mi perdevo nella bellezza dei colori interni.
Fuori, terra.
Dentro, un’esplosione di bianchi e rosa.

(Viste così, mi sembrano una verdura che mangiai a Pechino. Chissà se erano rape.)

Per 50 anni ho chiamato queste rape “erbette rosse”. Erano piccole e buone, le erbette rosse della mia infanzia. E non erano rosse. Una volta cotte diventavano color rosa-giallo. Erano un arrivo stagionale, benvenuto e apprezzato perché bastava bollirle, come le patate, con cui si accompagnavano perfettamente.

Una rapa gustosa anche solo lessata e condita? Incredibile.

Perché poi c’erano le altre rape, quelle radichette dure e incarognite che venivano tagliate a cubetti e cotte nel burro, con lo zucchero, e del brodo, e poi un po’ di farina a fare besciamella… potevi metterci tutta la buona volontà del mondo.
Erano coriacee: tempi infiniti di cottura. La casa ne veniva impestata: i vicini e anche i lontani si accorgevano che stavi preparando rape.

Erano amare, disgustose per me, nonostante il burro e lo zucchero, che illudevano la vista e non di certo il gusto.

Foto tratta dall’articolo “Ma dove vai se le rape non le mangi mai?” del sito web LaCucinaItaliana.it


Un’altro tipo di rapa serve per fare la brovada, piatto tipico del nord-est, per quanto ne so.
Questa rapa è gigante, un alieno biancastro-violaceo non particolarmente invitante. Viene messa nella vinaccia, pressata e macerata per mesi, poi ridotta a striscioline e cotta nella sua acqua. Un goccio d’olio e una foglia di alloro accompagnano una cottura lenta e inesorabile.
Nella mia famiglia si cucinava a oltranza, per giorni, finché le rape perdevano ogni consistenza e sentore di aceto, e tutta la casa sapeva di brovada.

Piatto indigesto e dal sapore decisamente particolare, uno di quelli con cui è più facile crescerci che apprezzarlo da adulti. Per me è il ricordo della mia infanzia, il suo odore pervasivo su vestiti e ambienti è legato al Natale. Adesso la mangio quando mi va, non solo a Natale, perché si trova anche inscatolata e precotta. Si perde un po’ di magia, in compenso riesco a godermi la mia tradizione anche in piccole porzioni.

Le rape da brovada non sono particolarmente fotogeniche. Questa foto viene dal sito brovadamansutti.it dove è spiegato il procedimento.


Torno alle rape di Chioggia che stavo tagliando con un semplice coltello, che profumano di buono già crude, e si cucinano anche in fretta, e mi chiedo… Ma quanto è migliorata la qualità delle verdure che mangiamo, se sono coltivate con cura? Come sono cambiate le verdure?

E non è solo che ho cambiato regione, anche quando torno in Friuli vedo prodotti diversi, più profumati, belli, appetitosi.

Ricordo mia madre che metteva una lama di ravanello (duro come un tartufo) nell’insalata e già era piccante come mangiare rafano.
Ora i ravanelli sono croccanti, saporiti e li mangio in pinzimonio.

Il pinzimonio, questo sconosciuto, nel Friuli della mia infanzia. A parte che serviva troppo olio, e buono, e poi… parliamo delle “verdure dell’orto”… Ravanelli piccantissimi, carote con un anima gialla di puro legno, pomodori verdi… finocchi, cardi e sedani non me li ricordo adatti ad essere mangiati crudi.


Il pinzimonio è la prima cosa strana che ho incontrato a Bologna. La mia coinquilina lo chiamava cazzimperio perché era di Roma, ma il concetto era più o meno lo stesso.
Quando arrivai a Bologna dopo il liceo, il primo impatto positivo con Bologna furono le verdure.

Non solo cavolfiori e agretti, Bologna mi ha aperto a un mondo che non pensavo esistesse. C’è una mentalità e una qualità della vita a Bologna che in altre parti d’Italia puoi solo sognare.

Con il tempo, dopo l’innamoramento iniziale, ho imparato che scegliere di vivere in una città diversa è molto diverso da scappare da quella in cui sei cresciuta. Qualcosa scatta in te, e sai dove sei. Altrimenti stai male a Bologna come altrove.

Qualche giorno fa ho incontrato una poesia:

Biglietto lasciato prima di non andare via

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

Giorgio Caproni

Questa poesia mi ha parlato, ed è cosa assai rara.

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