Da tormentone a tormento, è un attimo…
A suo tempo, c’era “Emilio”, un mio appuntamento fisso in TV, e l’inviato speciale, Silvio Orlando con il suo Why?… Pecché? … era un tormentone in casa.
Da tormentone a tormento, il passo è breve… infatti mal sopporto una domanda che inizia con “perché”, forse il motivo è che mi risuona abbinata in modo spontaneo a toni accusatori, giudicanti: avanti, dammi una spiegazione, su, se ne sei capace, vediamo che cosa ti inventi adesso.
E io mi vedo ancora, raccattare quel po’ di logica razionale che penso di avere a mano, e fornire una motivazione plausibile, o che si avvicina ad essere plausibile, mentre la risposta sarebbe Bboh?! …e sarebbe la risposta più sincera, ma non vuoi sembrare scema e insomma, un po’ di orgoglio, mica fai le cose a casaccio, una motivazione forte, convincente, razionale, che abbia un peso, ce l’avrai pure… ah no? … Bboh… Appunto.
Non che non mi capiti di farla, questa “perché-domanda”. Sono umana, faccio anche cose che non mi piacciono. Però, ecco, se me ne esco con una cosa tipo “Perché hai fatto così…?” – vuole dire che minimo minimo non sono serena, chiedimi se sono felice e portami lontano, se mi vuoi bene, grazie.
Questa diffidenza sulla ricerca “razionale” della causa si riverbera nella mia attività di facilitatrice e formatrice.
Ad esempio, non utilizzo e rifuggo l’esercizio dei “cinque perché”. Anche se ne riconosco la validità formale: nella successione di domande sempre uguali si scardinano un po’ i pattern e si scende nelle profondità del sistema – complesso, serve dirlo?
L’esercizio dei CINQUE PERCHÉ è piuttosto noto. Data una situazione da esplorare, di solito una criticità, la definisci a parole (es: tratto male Mario), ti chiedi “perché?”. E poi, definita la risposta, di nuovo “perché?”. E così per almeno 5 volte, fino allo sfinimento. Serve a smontare i pattern, le scorciatoie cognitive che usiamo per semplificarci la vita e non usare troppo la lenta ed energivora materia grigia, e per indagare a fondo le cause.
La raffica di perché non mi piace, mi sembra porti comunque le persone a produrre una risposta accettabile, coerente, che stia in piedi e faccia magari fare bella figura. L’approccio visuale, viceversa, distrae quel tanto da produrre spunti interessanti, quella cosa chiamata “insight”, l’intuizione di qualcosa che prima non vedevi.
Come strumento di analisi mi piace di più lo schema Iceberg, la mappa per eccellenza dell’approccio sistemico alle situazioni che non vanno come vogliamo, e che quindi definiamo “problemi”. Quando ho lavorato su di me usando lo schema iceberg ho risposto a molti CHE COSA e COME e mi sono sentita molto più a mio agio.
Altro esempio… ho disegnato uno schema, l’ho chiamato le Coordinate VIVE (Visuali e Verbali) e lo uso nel mio corso di base sul linguaggio visuale, per ricordare quali sono gli elementi fondamentali che ci permettono di leggere una situazione e di raccontarla in modo efficace.
Non ho inventato le coordinate, ci mancherebbe, il CHI-CHE COSA – QUANTO – DOVE – QUANDO – COME – PERCHÉ erano già nelle regole della retorica nell’antica Roma e parte di esse, più recentemente, costituiscono i pilastri del giornalismo, per lo meno quello anglosassone.
Né ho inventato il loro uso nel linguaggio visuale: l’ho imparato frequentando la Napkin Academy di Dan Roam, che ne dà una forma visuale tipo spicchi di pizza, o di torta.
Partendo dalla sua forma, mi sono presa la libertà di sbattere fuori dal cerchio il come e il perché, come forme secondarie, emergenti dall’analisi di tanto chi-che cosa-quanto-dove-quando.
Ci vuole tanta informazione per far emergere un perché (non “IL”, “UN” perché) e, nel tempo, un come. Altrimenti ti dai una spiegazione sulla base dei dati che possiedi, già digeriti, e poi vai a cercare le informazioni che sostengono la tua storia. E vedi solo quelle, non siamo programmati per vedere quanto mette in discussione le nostre idee. Si può fare, si fa continuamente, penso sia utile esserne consapevoli. Almeno per evitare di sentirsi in odore di scienza e verità.
Lo facciamo tutti, eh, ripeto. Ci semplifichiamo la vita, ci diamo spiegazioni veloci basate su grappoli di bias; la (piccola) parte razionale del nostro cervello è lenta, pigra, adorabile, ha bisogno di tempo ed energie per lavorare. Pensieri lenti e veloci, di Daniel Kahneman, lettura consigliata.
Il lavoro che faccio con le persone è un po’ questo. Aiuto a non accontentarsi di quello di te che già sai, ti porto a fare un tuffo nella curiosità di chi desideri essere, di che cosa vuoi avere, e di quali quantità (soldi, energie, passioni) sono importanti per te e ti soddisfano. Di dove ti senti bene, quando i programmi possono essere a un mese, un anno, dieci anni.
Non è un tutto e subito ma inizi a costruirlo ora. Lo stai già facendo.